POESIE DI Caranas
Gocce settembrine
Nel Borgo della Sapienza, ora neanche a San Lorenzo
riesco più ad entrare sotto le stelle.
Se le sarà portate via l’adolescenza,
nelle tenebre che antiche
aggrovigliano la rete che ci tiene
sparsi in pezzi d’Italia e del mondo tra
grandi ombre sospese in nebbia o fumo
senza luce di crepuscolo.
Cercavo un angolo ridente
tra pietre angolari testimoni del mio nascere
sperando ancora in un rifugio..
quello che è rimasto,
quello che resiste.
Come erano libere le ali nere delle ciavule
e dolce quel suono di campane a tarantella
ancora in eco attorno a quel campanile
rotto monolito di silenzio .
Né più ciavule , né più rondinelle,
né più fruscii d’erbe in orti da Ballerfino,
o saliva di bosco alla muravetta
e neanche più capanne imitanti
germi indiani di libertà.
Così oggi è : scialbatura di soli istanti
giusto quanto basta per assaporare
ancora quella luce bianchissima
sulla chiesa di San Sebastiano,
impronta d’esile risveglio
tra simulacri di lontananze.
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Alcune mie poesie tratte dal quaderno " a sagliuta" pubblicato nel 2007
Opere pubblicate ai sensi della legge 22.4.1941 n. 633, Capo IV, Sez.II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza il consenso dell’autore Carmelo Anastasio.
La riproduzione, anche parziale, senza l’autorizzazione dell’Autore è punita con le sanzioni previste dagli art.li 171 e 171- ter della suddetta legge.
MILANO 1969
E’ scuro il cielo di Milano;
di nebbia e di gas lacrimogeno.
L’aria puzza e non è mai ferma.
Le strade disselciate si gloriano
di tumulto, con cortei che sostano
un poco attorno alle vedovelle
per togliere la sete , per bagnare
gli occhi che sanno di limone.
I cuori battono sussultando.
I portoni si chiudono , le serrande
scorrono e dalle finestre
spuntano pugni chiusi nell’odore
della pietra e degli spari.
Un urlo più forte,
una carica rossa tra manganelli,
auto rovesciate e incendiate e poi
l’onda si allarga, si allarga ,
e a terra una grande macchia rosso
sangue di primavera,
sangue di 20 anni.
Nella mano una bandiera zuppa con
l’A cerchiata che si vede appena.
Portatemi dietro al corteo,
fatemi fare ancora un po’
di strada con voi.
1968 – Un giorno, una guerra
Ad ogni sparo un urlo
e spesso solo un tonfo!
E pullula la morte
ora in basso ora in alto
sui terreni arrossati
e l’uomo urla al vento,
alle pietraie mute
la sua storia di sangue.
Vanno senza calzari nella notte,
di sentiero in sentiero,
l’anime revelte dei morti
e sono perle al mattino
le lacrime sui prati.
Candelora
Quel giorno la neve cadde anche sul mare
sciogliendosi al primo contatto.
Il primo che scese dalla barca
sulla spiaggia bianca
imprecò contro il sole scialbo e lontano.
Per freddo , per fame, per poca pesca,
nun sacciu.
Altri con la testa china a guardar giù,
segnavano con passi gravosi
il manto bianco
al confine con le onde
preparandosi a tirar su
le barche da rovesciare.
Più in là, i fimmini nivuri
vattendusi u pettu facevan ressa,
con occhi volti al convento,
lassù sull’eremo di San Francesco,
chiedendo grazia
per quelli ancora in mare
con promesse d’oli da ardere.
Su volti segnati dal tempo
si scioglievano malinconie disperate.
E Fiore, marinaio più giovane,
col suo sorridere così innocente:
jamu, jamu, ca c’havimu fatta!
Come un invito alla presenza,
sul manto bianco della spiaggia
i segni di quel travaglio umano,
ultima fatica prima di tornare a casa.
Il rintocco delle otto
accompagnato dal sibilo della sirena,
riportava all’impegno gli studenti,
curiosi spettatori infreddoliti
ripassavano sotto il ponte ferrato
e si avviavano a scuola
seguiti da lontano
da Pristufora con lingua fumante.
Lo spettacolo era finito.
2 febbraio 1965 Fuscaldo Marina
A mio padre
Ottantacinque anni
trasportati da solo all’imbrunire
dal Calvario,
coperti dalla coppola scura
macchiata un poco
di verderame.
Con scarpe quasi sempre polverose,
riscaldate poco prima
con giornali accesi con fosparo,
l’uomo con i coppi ai pantaloni,
con passo lento
risale la scala del catoio
aiutandosi piano con la mano
per non lasciar cadere
il sacchetto di plastica
stretto nell’altra venosa.
Lassù in cima
dove sostando un poco
Si asciuga la fronte,
ogni vespro si guarda intorno
vivo, con occhi di speranza,
cercando oltre la porta socchiusa,
una traccia di valigia
testimone del mio ritorno.
Fons Calidus
Ancora oggi tra pietre e pietre,
anche se non c’è niente di nuovo,
in una cruna di luce di questa via Piana
do a te l’amore con animo stanco.
Il rifiuto è d’altri
tutti i giorni nell’ozio,
mentre il cerimoniale poltronifero
si limita a consumo del tempo.
No, non riesco,
non riesco a farti lividi sotto l’orizzonte.
E tra poco calerà il silenzio
tra le chiese intatte
e quella già sventrata.
Ma passerà l’inverno
con i suoi cristalli lucenti.
E ancora ci ritroveremo,
questa volta senza angoscia,
senza piangere interiormente
goccia a goccia.
Il pianto, lasciamolo nel mare.
Dolce mia terra, dolce Calabria
Mi sposto da una camera all’altra,
senza meta, senza sosta,
con il dodicesimo caffè
che fuma tra le mani.
Al polso l’orologio s’è fermato
e il tempo sta sospeso sotto il cielo grigio.
Mi siedo, mi rialzo, riprendo a camminare
con la dodicesima ( minchia ‘sto numero !)
sigaretta tra le labbra.
E sogno il mare di Fuscaldo
sentendo sferzate salmastre sulle narici,
e voglia di piedi nudi nella sabbia fredda.
Poi mi vedo riempire di quel mare
una bottiglietta di Lete da portare a Milano,
per annusare ogni tanto quel nostalgico odore
di fanciullezza e libertà.
Che noia ! Vabbè, domani parto!
Ghirigori
Esiliato dal tempo
non posso viverti
e pallidamente aspetto
di qua e di là
come morto
non ancor risorto
senza gloria.
Loschi bagliori.
Eppure questo corpo sguscerà
per vivere la serpe
in questo nulla che ci separa.
Clandestina novità
che si arrampica,
che sale
che scende
e s’aggrappa spingendoti
ora in alto,
ora in basso.
Potremmo alzarci urlando
mano nella mano
schiena contro schiena
investendo i colori
ora il rosso, ora l’azzurro
oltre la spiaggia
sempre più piccola sino al punto.
Non possiamo cadere.
Noi non ci siamo.
E ancora più su
rapiti dal vento
zavorrati solo dai mie genitali.
Poi, a poco a poco,
riportandoti giù
assaporare ancora
quell’attimo magico
l’uno nell’altra
cullati nell’arco di luce.
E infine silenzio
nella vertigine
leggero come l’aria.
Scilla
Soffice ti sfiora la mia mano
penetrandoti la mia anima,
il mio cuore.
I tuoi occhi marini mi guardano
fissandomi spiosi
in linea ammaliante
mentre dolcemente, gli altri, scuri,
si posano sui seni bianchi,
capezzoli rosa
profumo d’oriente.
E voluttà con amore
stringendoti e accarezzandoti
ancor più piccola e mia.
E sudore che scivola
nei meandri più intimi
a cogliere il pulsare
d’emozioni vicine all’estasi.
E poi, piano accarezzarti i capelli
baciarti le palpebre ,
sussurrarti calde parole d’amore.
E sentirti ancora pulsare e vibrare.
Sei mia.
Ansia
Trent’anni almeno o forse più
che non mi lasci.
Anima ribelle che distruggi.
Piovra serrante progressiva
delle mie giornate,
anche ora che vita voglio.
Astringi non più in quarantena
e con assillo mordi la gola
responsiva quando luce
ti porta a scontrarti
con realtà più grigia.
Tormento fiume che non voglio.
Così, respiro forte
per calmarti un po’
per trovar forza e non farti
offendere la mia anima.
Tu no, non alzar la voce
tromba per le orecchie
che trascino davanti al sacramentario show
per starci ore a rimirar lo stato
sfioccandomi e soffondendo acqua
per svegliarmi un po’ nel papocchio.
E il nero esce dal riflesso.
Così notte, così giorno.
Esplosi
Esplosi nel cervello
flessibili labbra
antri pericolosi da scoprire
e come Sibilla
ora ti concentri
forte dei miei neuroni
e delle mie elucubrazioni.
E ritorna il tarlo
bisognoso di vitamine
al di là del muro
che oggi posa più alto
su base di unico sentimento
retorico o no
che comunque c’è
e pare solo mio.
… Calabria!
Tornare giù in quell’adolescenza,
un poco triste, un po’ briosa…
E ancora colori
e vento, tanto vento melodioso
e parlare col mare
e urlare come allora
correndo con la cinquecento blu,
scaricando quel po’ di tossine
imbevute di noia.
Stordirsi di note
Beatles, Nomadi, Rokes e Rolling Stones
e tanti altri nostri
che ci accompagnavano nelle domeniche
attorno all’unica bottiglia di vermouth
che potevamo permetterci,
sotto lo sguardo vigile dei genitori,
che con testa bassa
introducevano i loro sguardi
sulla distanza delle coppie.
E tu, tu non c’eri.
Pugni chiusi, tramonti oscuri
Ci precipitammo in Statale.
Tutti parlavano con tutti.
C’erano ancora scontri
ma non sanguinosi.
“Lasciatelo parlare”
quando dilungava o inciampava
in sé stesso parlando
al mondo per la prima volta.
Non c’erano maestri.
Tanti giovani, belli o brutti
e anche meno giovani.
E fuori il rumore
delle sirene e barricate.
Milano o tace o grida
o dorme .
Eravamo già perduti.
Era facile vedere generazione
che si opponeva fragilmente
a reazione , architettura capitalistica.
Il mondo m’appariva com’era su , al nord.
Non più tramonti scintillanti di Calabria.
Come chi aveva appena annusato Marx
sapeva che fosse.
Il PCI in un angolo
inarcando il dorso
come un gatto sotto il temporale
non si rimproverava omissioni.
Libertari, antiborghesi e antisistema
acclamavamo Lenin e Rosa Luxemburg.
Pochi Ho Ci Mihn e di più Mao.
Ma non erano che simpatici simboli.
Passioni e condanne
ardenti e approssimative.
Anarchici in simpatia
senza visita nelle loro riflessioni.
E più tardi incominciarono
a scapparci i morti.
Fuscaldo 1997
Adesso basta!
Mi hai annoiato
con la memoria che invochi
come antico guerriero morente
intrappolato da inamovibile destino.
Né pietà né memoria ti darò.
Ladro sei !
Senza vera storia
continui a cospargere di polvere
i nostri occhi
puntati alla ricerca del tempo.
Ora basta!
Pietre, pietre, sempre pietra.
Paese desolato
non avrai anche il cuore
così duro
come portale ornamentoso?
File apri, file chiudi
Questo blog è una stanza disabitata.
Ogni tanto ci infilo una sedia nuova,
un quadro, un cestino. E li lascio li.
Aspetto che qualcuno si sieda e legga il quadro
compiendo quel travaso
con pudore e con luce,
rendendolo acquedotto luminoso.
Niente, neanche un commento!
File apri,
file chiudi,
file salva.
Quello che avanza lo dispongo in cestino
per un’ultima sosta prima di uscire dall’orizzonte
e morire in memoria.