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Blog  di Caranas

Giovanni Sartori boccia tutti: "Obama è un incapace, Papa Francesco un furbacchione e Renzi un furbetto"

30 Giugno 2015 , Scritto da CARANAS Con tag #POLITICA

Giovanni Sartori boccia tutti: "Obama è un incapace, Papa Francesco un furbacchione e Renzi un furbetto"

Obama? “È un incapace, un personaggio da quattro soldi”. Papa Francesco “un furbacchione”. Matteo Renzi “un furbetto”. Ne ha per tutti Giovanni Sartori, che in una spassosissima intervista al Fatto Quotidiano dà le pagelle ad alcuni dei protagonisti della nostra storia.

Secondo il politologo oggi 91enne, l’ignoranza non è una prerogativa italiana (anche se noi siamo messi malissimo). “Prenda Obama. Frequentava alla Columbia il corso di laurea dove insegnavo. Ma non l’ho mai visto alle mie lezioni. Le sembra uno capace? […] Io avevo due corsi importantissimi per lui! Uno sulla teoria della democrazia, l’altro su metodo, logica e linguaggio in politica. Tu vuoi fare politica e non segui questi corsi? Gli interessava solo di essere eletto. Personaggio da quattro soldi”.

Bocciato anche Papa Francesco, che secondo Sartori “ha le sue responsabilità” nella guerra di religione in corso. “È un bel furbacchione”, attacca il politologo. “Ha detto solo parole tardive e fumose sulla strage dei cristiani in Africa. E la Chiesa è la trincea di chi si oppone al controllo delle nascite. Ma il sovrappopolamento è la più drammatica crisi del nostro tempo. Dove li mettiamo? Cosa diavolo gli diamo da mangiare? […] In tutta onestà ho un pregiudizio verso gli argentini. Non me ne voglia ma è così. È un furbo in primis, e poi è argentino. Tutti gli italiani cattivi li abbiamo spediti in Argentina. Tra parentesi: non ho mai accettato una laurea ad honorem laggiù”.

Sartori non fa sconti neanche al premier Renzi, “un furbetto”, a suo dire. “Gli italiani hanno pensato che questo ragazzo fosse l’unico in cui riporre una speranza”. Chiaramente, sbagliandosi. Al politologo non è mai andato giù il modo in cui Renzi, quando era sindaco, si precipitò a stringergli le mani e baciarlo in occasione di una premiazione a Firenze. “Scattano queste foto e lui un secondo dopo scompare senza che io avessi avuto tempo di conoscere chi accidenti fosse. Perché il tizio scorda di presentarsi […]. Poi mi hanno svelato la sua identità, un furbetto”.

[Fonte : L'Huffington Post]

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Quella piramide su Marte che la NASA non vuole far vedere

30 Giugno 2015 , Scritto da CARANAS Con tag #SCIENZA

 

Com’è auspicabile, un’antichissima civiltà avrebbe vissuto su Marte tantissimi anni fa e non solo, come mostra la foto scattata dal rover Curiosity della Nasail 7 maggio scorso , tale civiltà avrebbe costruito delle piramidi , come gli Egizi.

 

Ma la Nasa non vuole rivelare nulla e non se ne capisce il perché. La “piramide” che si vede nella foto sarebbe di dimensioni relativamente piccole ma, potrebbe trattarsi anche della punta di una struttura piramidale molto più grande ed in parte sommersa dalla sabbia di cui si vede solo la punta.

Non ci sono prove tangibili e comunque diventa difficile pensare ad una normale formazione rocciosa scolpita dal vento (quale?).

Io voglio credere che sia invece il risultato di una progettazione intelligente e non una illusione frutto di luci ed ombre.

Una curiosità sta nel fatto che l’oggetto non sarebbe stato ripreso in nessun’altra delle successive foto scattate da Curiosity a intervalli di 20 o 30 secondi, nemmeno alcune ore dopo. Una stranezza che potrebbe derivare da una precisa scelta della Nasa.

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E tutto si avverò

29 Giugno 2015 , Scritto da CARANAS Con tag #finanza

E tutto si avverò

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Docente precaria denunciata dal Pd

29 Giugno 2015 , Scritto da CARANAS Con tag #SCUOLA

Docente precaria denunciata dal Pd

Il triste racconto di una insegnante presente nell'aula al momento del voto.

Racconta anche di essere stata denunciata dal PD, il suo stesso partito.

Quello che è successo in Senato qualche giorno fa ha dell’allucinante. E non solo perché è stata approvata una riforma della scuola che nessuno voleva, violentando i fondamentali diritti del popolo. Ecco la testimonianza di una docente precaria che, alla fine della protesta, è stata denunciata dal suo stesso partito.

La professoressa fa un triste resoconto sulla sua pagina FB: “Oggi si è votato al senato il maxi-emendamento sulla scuola. Raggiungo i miei colleghi. Ci abbracciamo, ci salutiamo, facciamo qualche battuta. Salutiamo quelli che entrano in senato e siamo pronti per unirci al corteo. Ma non riuscivo ad allontanarmi, come una mamma in attesa che la propria figlia partorisca. Esce qualche senatore per chiederci chi vuole entrare: vorremo entrare tutti. Sentivo che in quel palazzo si giocava la mia vita. Entro. In silenzio prendiamo posto, sono in prima fila insieme alle mie amiche Mascia e Margot. Il presidente Grasso ci annuncia. E' tutto di velluto rosso e legno, tra me e me penso: sembra un teatro.”

A questo punto viene il bello: “Guardo giù, mi sembra che la sen. Puglisi ci saluti, rispondo istintivamente ... ma no, non è un saluto ... mi sta dicendo di smammare! Possibile? mi guardo intorno, qualcun altro fa lo stesso gesto. Rimango impassibile, se do loro fastidio è il posto giusto. Aspetto. Cerco di capire. Vicino a me c'è un poliziotto, giovane, un ragazzo, moro, elegante, 5, forse 6 commessi. Si inizia a votare. Una lunga sequenza di Sì. Chiamano Napolitano, risponde: sì. Ma come, un partigiano? Guardo spaesata verso SEL, sotto di me M5S e Lega. Ad uno ad uno alla seconda chiamata dicono NO. Ma non basta, non è sufficiente. Alla fine ci alziamo, iniziamo a gridare: VERGOGNA! Veniamo strattonati e allontanati. Fuori dall'aula mi sento male, quel poliziotto mi abbraccia, un ragazzo, mi tiene stretta e mi sussurra; maestra, questi non sanno cosa significa soffrire. Esco.”

Insomma i politici invitano i docenti a scomparire, perché tanto lì si fa come dicono loro: “Se qualcuno in quel momento mi avesse detto: occupiamo il senato! sarei rimasta, anzi forse l'ho detto: io da qui non mi muovo! Ero seduta sui gradini, tremavo, si riavvicina quel ragazzo, mi prende la mano, e poi Mascia: Patrizia, andiamo. Li seguo. Non ho più voce, solo tante lacrime, penso alla mia vita, penso al senso della vita di mio figlio, mi sento ancora una volta di aver fallito, di non aver saputo far rispettare i suoi diritti, e di non avere i mezzi economici per sostenere la mia famiglia, gli studi, le terapie, il mutuo. La mia intelligenza, le mie lauree, i corsi di formazione, i master, la voglia di mettere a frutto la mia esperienza, l'impegno civico, i sogni, le speranze ... niente ... tutto alle ortiche. E poi arriva la beffa: denunciata dal mio ex partito! grazie, grazie PD.”

Questa la testimonianza di un'insegnante di sostegno precaria della Repubblica italiana. Denunciata dal Pd, il partito che aveva sempre votato. E’ la fine di tanti sogni, di un’idea della politica irrimediabilmente anacronistica. Oggi è il tempo degli sciacalletti e delle iene. Smamma, insegnante, ma chi sei, che vuoi?

[fonte: La Tecnica della scuola]

Lettera di una collega

Tina Galante - Senatori Pd, questa volta non vi scrivo né cari, né gentili perché non lo meritate affatto. Vi scrivo per chiedervi di denunciare anche me. Ero anche io con i miei colleghi, nell'Aula del Senato, quel maledetto giorno del 25 giugno 2015. Anche io ero incredula, disperata ed impotente di fronte al vostro arrogante comportamento.

Vi siete attaccati a quella poltrona rossa togliendo al vostro popolo, anzi al vostro elettorato, ogni speranza e minando per sempre le basi della democrazia. E denunciate chi vi contesta perché ha avuto comportamenti offensivi per la dignità del Senato, ma dimenticate le vostre risse, quelle che ci hanno fatto ridere dietro da mezzo mondo, ma si sa, “ubi maior minor cessat” e “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”.

Forse il vostro comportamento non è stato offensivo per la dignità della classe docente? Forse votare la fiducia solo per mantenere la propria poltrona e i propri privilegi è meno grave che chiedere giustizia ed equità?

Ma voi esattamente avete idea di quello che avete fatto? Io non credo, chiusi come siete nel vostro bombato mondo fatto di lussi e privilegi, lontani dalla realtà e dalla grigia quotidianità che il cittadino italiano deve affrontare ogni giorno. Ebbene vi faccio un solo esempio per fare luce sull'atto criminale che avete compiuto permettendo a Renzi di condannare a morte la scuola pubblica italiana.

Prendo ad esempio una sola norma presente nel ddl denominato impropriamente "la buona scuola”, quella che prevede la discrezionalità del dirigente a stabilire il numero di alunni per classi/sezioni con lo scopo di eliminare le classi pollaio, però con la clausola che la somma degli alunni distribuiti nelle classi debba essere sempre la stessa.

Nella fattualità in cosa si traduce questa norma? Che se ci sono 50 alunni e 2 classi il dirigente potrà decidere di creare una classe di serie A con 20 discenti, con lo scopo di avvantaggiare il docente “simpaticone” e magari “disponibile” e gli stessi alunni che sarebbero comunque seguiti meglio; e di condannare la classe di serie B con 30 alunni magari ficcandoci dentro qualche bambino con Bes o con Dsa, quindi senza diritto a sostegno, per mettere in condizioni di non poter insegnare un docente non tanto simpatico e mena grane, ma preparato e capace, con lo scopo di dimostrare sul campo la sua incapacità al fine di non dargli il premio previsto (20 miseri euro al mese), o peggio ancora nel tentativo di licenziarlo.

Questo è solo un banalissimo esempio, ne potrei fare a iosa fino ad annoiarvi, per dimostrarvi che voi avete messo la vostra firma sull'atto più criminale che sia mai stato fatto contro la scuola pubblica italiana. Tutto il ddl sulla scuola è un invito alla corruzione, è l'esportazioneforzata delle cattive abitudini italiche dalle quali la scuola era stata, per anni, tenuta doverosamente fuori. Oggi con le vostre scelte, non solo l'avete consegnata nelle mani del boia, ma avete stracciato la nostra Carta Costituzionale e avete offeso chi versò il sangue per essa. Avete permesso che personaggi come Salvini e Rondolino invitassero pubblicamente a PICCHIARE i docenti; gli avete permesso di insultare la categoria accusandola ingiustamente di nullafacenza!

E allora io vi invito SENATORI a provare sulla vostra pelle come si può essere nullafacenti in una sezione di 30 bambini con un'età compresa tra i 2 anni e ½ e i 5 anni, per 5 ore.

Io vi sfido a dimostrare a tutti come si fa ad essere nullafacenti in questo lavoro! E lo stesso vale per gli altri ordini e gradi, perché i giovani di oggi sono problematici ed ipercinetici, super stimolati da una società in continuo fermento e alla classe docente non è permesso di fermarsi, perché è impegnata costantemente a tessere relazioni umane.

Credete che sia facilmente digeribile l'insulto della Card, oppure dei corsi di aggiornamento? Ma per chi ci avete presi? Credete che noi non andiamo a teatro, al cinema, non leggiamo libri? Ma davvero avete un'opinione così bassa della nostra categoria? Vi assicuro che siamo decisamente migliori di come volete dipingerci attraverso questo ddl, e siamo sicuramente migliori di voi, perché ogni giorno ci mettiamo in discussione!

La vostra volontà punitiva espressa malamente attraverso l'accettazione supina di un disegno di legge inopportuno e inattuabile, ha sdoganato la moda dell'insulto verso i docenti: ormai anche in mezzo alla strada tutti si sentono in diritto di insultarci: teppisti, fannulloni, e chi più ne ha più ne metta! Siete soddisfatti del vostro operato. Siete davvero convinti di potervi guardare allo specchio?

Ma sappiate che noi non ci arrenderemo, cercheremo altre strade per fermare questa mostruosità, sempre nella legalità perché siamo dei professionisti e degli intellettuali, e rimarremo uniti e soprattutto non dimenticheremo!

Quando si voterà non dimenticheremo i vostri nomi.

La misura è colma! Prima con l'articolo 18, solo affetto ideologico dicevate, poi con il jobs act, poi con l'Italikum, adesso con La buona scuola. Avete attaccato e massacrato persino i Patronati che svolgono un ruolo importantissimo nel sostegno dei diritti dei meno abbienti, visto che in Italia i diritti sono solo a richiesta dell'interessato, e non d'ufficio come negli altri paesi civili! Nemmeno Berlusconi si era spinto così oltre!

Gli italiani hanno scelto una sinistra annacquata e si sono trovati al governo il peggior neoliberismo conservatore della storia. Le vostre non sono riforme, sono controriforme. Basti pensare al sindacato unico, al partito della nazione per avere il quadro completo.

Noi docenti siamo l'impalcatura sana di questa nazione e non vi lasceremo distruggere tutto. Il 25 giugno 2015 comincia la nostra Resistenza. Ci rivedremo a Filippi!

Una docente super indignata!

[da OrizzonteScuola]

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Ridere fa bene alla salute. Guarda questo video

28 Giugno 2015 , Scritto da CARANAS Con tag #Risate

ma si , ridiamo un po'

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RENZI 1 e 2 SEMPRE PIU’ VICINI AL MITICO DORIAN GRAY

27 Giugno 2015 , Scritto da CARANAS Con tag #POLITICA

Aridatece Bersani ! O forse no

                                                                           di Caranas

 

Il nostro presidente del consiglio è sempre più in rapporto conflittuale col suo omonimo Renzi segretario del PD al quale è andata di traverso la sospensione del governatore della Campania Don Vincenzo De Luca in applicazione della legge Severino.

Matteo Gray è fortemente impressionato ed al contempo influenzato da Renzi primo ministro anche dal punto di vista artistico. In effetti questo “ragazzo politico “ è dotato di una particolare bellezza e desta in tutti (tranne in Landini) grande fascino e ammirazione. Renzi , con la sua rottamazione dei giaguari del PD ha messo in atto uno stile nuovo che l’ha portato a realizzare la sua opera migliore : resuscitare Berlusconi e come Giuda tradirlo subito dopo (l’ha fatto anche con Letta).

Dopo gli scivoloni sulla scuola, sugli F35, sulle pensioni , sui precari, sulle tasse ( i ricchi non pagano mai e nessun premier li tocca), ecc., ora è costretto a sospendere Don Vincenzo De Luca ( perché poi Berlusconi si e De Luca no? , l’ha chiesto alla Bindi ?)

Renzi 2 continua a temere la cattiva influenza del Renzi 1 il che aumenta legittimamente la confusione e la sensazione di trovarci di fronte ad una vicenda dai contorni kafkiani.

Siamo davanti ad una vera e propria manifestazione di sdoppiamento della personalità da parte dell’ex sindaco di Firenze che vorrebbe nascondere un malcelato furbesco e evidente opportunismo (fa il bene dell'Italia? No! Fa i cazzi suoi).

Quando Renzi accettò la candidatura di De Luca sapeva benissimo che, in caso di elezione, come è accaduto, l’ineffabile ex sindaco di Salerno non avrebbe potuto ricoprire quell’incarico.

Ma avrebbe dovuto saperlo anche il Premier, sempre Matteo Gray naturalmente, che infatti ha dovuto, per non incorrere nel reato di omissione d’atti d’ufficio, provvedere alla sospensione del De Luca, dopo aver cincischiato per oltre molti i giorni, forse alla ricerca (spasmodica) di qualche scappatoia che aggirasse la norma.

Ci sarà rimasto male il nostro Don Vincenzo, soprattutto adesso che come Marino , si vede scaricato dall’ambiguo specialista del doppio gioco compagno d’armi.

Certamente anche il dubbio che si tratti di qualcosa di psicologico che lo attanaglia comincia ad affiorare (Brunetta docet).

Forse Maria Teresa Meli , fiera renziana, potrebbe fornirci la risposta giusta.

 

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E' una questione di fiducia

26 Giugno 2015 , Scritto da CARANAS Con tag #SATIRA UMORISMO COLTO

E' una questione di fiducia

La vignetta parla da sola

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Basta Berlinguer. La disastrosa politica del Pd su scuola e università

23 Giugno 2015 , Scritto da CARANAS Con tag #SCUOLA

Basta Berlinguer. La disastrosa politica del Pd su scuola e università

Basta Berlinguer. La disastrosa politica del Pd su scuola e università

[Non sono completamente d’accordo ma pubblico perché l’analisi mi sembra veramente interessante - Caranas]

Il Partito Democratico ha gravi responsabilità storiche per aver varato negli anni provvedimenti rovinosi per scuole e università. Sono i riformatori “di sinistra” come Luigi Berlinguer che hanno gettato le basi per la creazione del rapporto tra università e impresa, formazione e interessi privati. Fino ai progetti liberticidi del governo Renzi.

di Anna Angelucci e Tiziana Drago *

Le gravissime responsabilità storiche del Partito Democratico nel varo di provvedimenti rovinosi per scuole e università sono un fatto. Cominciamo con la scuola. Alla fine degli anni ‘90, con i decreti attuativi della legge sull’autonomia scolastica (D.P.R.275/99), si è avviato un nuovo modello di governo e di gestione della scuola pubblica che prevede l’affidamento alle singole scuole di una serie di poteri in materia di organizzazione didattica, ricerca e sperimentazione, funzionali alla progettazione e alla realizzazione del proprio piano dell’offerta formativa; contemporaneamente, si è disegnato un nuovo reticolo di rapporti con gli enti locali che pone la scuola talora al centro, talaltra alla periferia del sistema.

A quindici anni di distanza, il buon senso avrebbe suggerito almeno un tagliando. Una riflessione seria sugli esiti della riforma a livello nazionale, aggregando e disaggregando i dati locali multidimensionali. Tanto più dopo la falcidia operata da Gelmini che, nel 2008, senza dire né ahi né bai, ha tagliato di netto tutte le sperimentazioni. Sulle quali, credo, meritava che il Paese si interrogasse.

La legge sull’autonomia scolastica, e questo è un fatto, ha determinato la trasformazione della scuola da istituzione dello Stato a ente che eroga un servizio per lo Stato dotato di personalità giuridica, ponendola alla stregua delle scuole private che, ancorché paritarie, sono e restano enti privati che vendono il loro servizio formativo a clienti paganti. Le istituzioni scolastiche diventano, da quel momento, espressione di un’autonomia funzionale intesa non come tutela dell’autonomia del sistema scolastico, ovvero come tutela dell’autonomia della scuola della Repubblica e della Costituzione da qualunque illegittima e contingente ingerenza politico-ministeriale, bensì come sdoganamento della libertà anarchica di ogni singola scuola di inventarsi un suo peculiare profilo culturale ed una sua peculiare offerta di ‘servizi formativi’ da propinare alle famiglie ormai assuefatte ad ogni sorta di imbonimento e di marketing.

La progressiva, costante riduzione dei finanziamenti pubblici ha completato l’operazione di smantellamento indicata da Berlinguer. Oggi, l’unico capitolo di spesa che afferisce al bilancio dello Stato è costituito dagli stipendi dei lavoratori della scuola; il resto, e cioè il finanziamento del funzionamento delle scuole, si racchiude in cifre talmente risibili che definirle simboliche è un eufemismo. Di fatto, come tutti sappiamo, senza i contributi volontari delle famiglie le scuole statali italiane chiuderebbero.

E’ utile ripercorrere rapidamente la storia dell’autonomia scolastica? Forse sì, almeno per comprendere con chiarezza la genesi e le fonti del ddl Renzi attualmente in discussione in Parlamento, ovvero del progetto liberticida della scuola pubblica statale che, esasperando il dispositivo dell’autonomia in chiave personalistica e, oserei dire, patologica, ne configura oggi la definitiva cancellazione.

Come ci ricorda Antonia Sani [1], fu nell’estate del 1994 che il concetto di autonomia scolastica imboccò la via che vede oggi il suo epilogo nel ddl di Matteo Renzi. Il documento “Una nuova idea per la scuola”, di area centrosinistra, poneva al centro una nuova idea di autonomia scolastica, che sarà da quel momento in poi l’idea vincente. Il modello NON è l’autonomia del sistema scolastico dagli indirizzi prodotti dalle maggioranze governative del MIUR, ma una sorta di libertà dei singoli istituti di porsi in competizione sui livelli di efficienza offerti.

E’ servita quella competizione? E’ stato utile per le famiglie scegliere la scuola dei loro figli sulla base del POF più accattivante o della presentazione più o meno seduttiva fatta nelle giornate di orientamento per accaparrare iscrizioni? Con l’autonomia, la qualità dell’offerta formativa delle scuole italiane è cresciuta? Gli esiti degli apprendimenti degli studenti e le loro abilità fondamentali sono migliorati?

Queste sono le domande serie che bisognava porsi e a cui bisognava dare una risposta ragionata e argomentata. E non solo ai cosiddetti stakeholder (le famiglie, direttamente interessate al problema della scuola) ma a tutti gli italiani. Perché la scuola, e l’università, sono una questione che riguarda tutti gli italiani e non solo chi occasionalmente le frequenta. E tutti sono dunque ‘portatori d’interesse’.

In quel documento, firmato tra gli altri dallo stesso Berlinguer, si delineava l’idea dell’autonomia – all’interno di un sistema formativo pubblico, nazionale e unitario, che comprendesse scuole statali e non statali – come principio riformatore fondamentale e si indicava già allora la necessità di introdurre un bonus fiscale per un portafoglio di investimenti privati – da parte di cittadini, associazioni, fondazioni, imprese – all’interno delle scuole.

Et voilà, con l’autonomia e i suoi annessi il succulento banchetto della privatizzazione della scuola pubblica e della precarizzazione della professione docente è servito dal nostro Master Chef Renzi all’ingorda Confindustria, che con tre gole caninamente latra reclamando una volta per tutte il suo fiero pasto. Noi.

Veniamo all’università. Chiunque abbia vissuto i giorni di impegno forsennato contro la riforma Gelmini (la resistenza coriacea sui tetti, la febbrile produzione di analisi e documenti, le battaglie oscure all’interno degli atenei e le fatiche estenuanti all’esterno delle aule e dei corridoi) ricorderà il contegno sonnolento del Partito Democratico, per nulla turbato dall’enormità della posta in gioco.

Com’è noto, quella “riforma”, che un mantra facile e insidioso spaccia come “meritocratica” e “antibaronale”, ha inflitto al sistema pubblico della formazione e della ricerca una ferita insanabile di cui non si smetterà mai di scontare tutte le disastrose conseguenze (oltre che le disfunzionalità burocratico-amministrative: ma quello della governamentalità aziendale non era un universo dorato?). Nella sostanza, l’impianto della legge 240 viene deciso dalla convergenza di tutte quelle forze che fanno gravare sull’università e sulla ricerca, che non sia al servizio spicciolo dell’impresa, un diffuso sospetto di inutilità se non proprio di nocività.

Dopo aver fornito giustificazione teorica - la ‘razionalizzazione’ per le università, l’ ‘essenzializzazione’ per le scuole - al definanziamento sempre più insopportabile, la legge Gelmini apre la strada a un aumento indefinito della tassazione studentesca negli atenei, amplia a dismisura il potere dei vertici, precarizza la ricerca con la cancellazione della figura del ricercatore a tempo indeterminato (vanificando il senso stesso della trasmissione del sapere), decide l’ingresso degli esterni nei consigli di amministrazione in nome della “modernizzazione” del sistema e del rafforzamento del legame dell’università con il territorio (un ‘vizietto’ ereditato dal centrosinistra) e con l’impresa; il che significa, nei fatti, consegnare alle necessità del mercato l’orientamento delle politiche di ricerca e didattica di alcuni settori (politecnici, aree tecnologiche e mediche). E poco importa che i potenziali investitori siano distribuiti in modo diseguale sulla superficie nazionale del Paese.

Di fronte a questo disegno regressivo per la dignità, i giovani e il futuro il Partito Democratico si trincera dietro l’ipocrisia di una ‘solidarietà’ di facciata alla protesta (la passeggiata di Bersani sui tetti della Sapienza e il doveroso voto contrario in Parlamento) e si dimostra del tutto incapace di abitare un orizzonte culturale diverso da quello che avrebbe dovuto combattere. Per conformismo e per ignavia. E, d’altra parte, non è un segreto per nessuno che buona parte dell’impianto gelminiano sia stato suggerito, condiviso e sostenuto da intellettuali e riformatori scolastici politicamente vicini a quel partito.

Il fatto è che la contiguità – e la compromissione – dell’establishment del PD con il disegno strategico ‘modernizzatore’ varato dal Governo Berlusconi ha radici assai profonde: ha alle spalle anni in cui i riformatori “di sinistra” hanno gettato le basi per la creazione del rapporto tra università e impresa, formazione e interessi privati. E infatti, l’apertura al territorio, l’avvicinamento alle aziende, la partecipazione dei privati costituiscono il catechismo di ogni riforma da Luigi Berlinguer a Mariastella Gelmini. Alla base, naturalmente, una miracolosa capacità di regolamentazione del mercato e la concorrenza come ecologia della società: un von Hayek nudo e crudo. Per tacere dei miraggi professionali e delle effimere competenze dettate dalla moda del momento e incarnate nella riforma del 3 + 2.

Nulla di strano quindi che la promessa fatta sui tetti da Bersani di adoperarsi per l’abolizione della legge 240 venga poi prontamente smentita dall’appoggio concesso dal Partito Democratico al successore della Gelmini nel governo Monti, quel ministro Profumo rivelatosi l’esecutore testamentario della riforma: sua l’ineffabile uscita per cui la legge 240 non andava abolita, ma «oliata»; e infatti, l’emanazione dei decreti necessari alla legge reca la firma del ministro. In più, Profumo si illustra per il famigerato decreto AVA sull’AutoValutazione e l’Accreditamento delle sedi e dei corsi universitari (D.M. 47/2013).

Nel più totale silenzio della stampa mainstream, il dispositivo sancisce i parametri e le modalità di valutazione che verificano periodicamente e decretano la vita o la morte degli atenei e dei corsi di studi: un assemblaggio malfatto di requisiti puramente numerici, meri algoritmi difficili da soddisfare da parte di corsi di laurea che sopravvivono a stento, in un contesto caratterizzato dall’impossibilità di assumere nuovi docenti, dato il blocco del turn over imposto dalla Legge 133/08 e successivamente dalla spending review (d.l. 95/2012), oggi drammaticamente aggravato dalla legge di stabilità del governo delle larghe intese.

Né si tratta di questioni meramente tecniche: il decreto, che prevede vincoli stringenti solo per le università statali e deroghe generose per quelle non statali e telematiche, oltre a determinare un impoverimento notevolissimo della formazione universitaria, con la cancellazione di interi settori del sapere, non manca di orientare il sistema all’introduzione o all’inasprimento del numero chiuso o programmato, dal momento che la nuova formula per il calcolo dei docenti di riferimento stabilisce un numero superiore di docenti necessari alla sopravvivenza del corso di laurea in relazione al numero degli studenti.

Con tutte le conseguenze in termini di violazione del diritto allo studio che ciò comporta. Sebbene questi parametri si siano rivelati di fatto inapplicabili –a meno di non voler far chiudere battenti alla maggior parte degli atenei italiani– con il proprio appoggio il Partito Democratico si rende complice dei mandanti di una nuova, radicale accelerazione nella direzione di quello strozzamento del sistema universitario pubblico, del tutto sganciato da ogni considerazione di qualità sulla ricerca e sulla didattica, ma contrabbandato come icona del “merito”.

E tuttavia, non migliore fortuna si è registrata con la ministra piddina Maria Chiara Carrozza, impegnata sin da subito a battere il record negativo del precedente ministro. Carrozza sollecita insistentemente le sirene della selezione meritocratica, ma si capisce subito che “merito” è il termine vuoto con cui si intende stabilizzare e inasprire gli strumenti di ricatto e di disuguaglianza che disciplinano la società.

E così, dopo aver emanato il suo Decreto Ministeriale sul numero chiuso e promosso il ricorso ai test standardizzati come strumento di valutazione (con l’obiettivo dichiarato di introdurre l’Invalsi anche nell’Università: test standardizzati per tutti per standardizzare i pensieri di tutti), la ministra dà la stura all’ennesimo aggravamento del blocco del turnover negli atenei, che corrisponde a un taglio di svariati milioni di euro, al netto dei proclami del governo delle larghe intese sulla necessità di non fiaccare ulteriormente un malato terminale. E infatti, sull’università e i fondi di ricerca la priorità individuata è, manco a dirlo, quella di razionalizzare le poche risorse disponibili, unitamente al solito mantra del potenziamento del rapporto tra ricerca, territorio e impresa.

Ma il vero capolavoro di iniquità è il decreto sui punti organici, con cui si decide del ricambio generazionale e della possibilità stessa di fare ricerca nelle varie università italiane: due soli atenei del Nord (Milano e Bologna) ottengono gli stessi punti organico di tutte le università meridionali messe insieme. Il sistema di ripartizione premia, evidentemente, gli atenei delle regioni con PIL più alto rispetto agli atenei con PIL più basso.

La strategia dell’era Carrozza è evidente: ridurre drasticamente il numero degli atenei e creare poli accademici di serie A, ultra-finanziati e d’eccellenza, ed altri di serie B, sotto-finanziati e caratterizzati da una pessima didattica e da una ricerca inesistente. Il merito e la valutazione, dispositivi di controllo e disciplinamento sociale in una fase di crisi senza precedenti, diventano paradigma anche all’interno degli atenei, attraverso il braccio armato dell’ANVUR (il mostro “meritocratico” di emanazione governativa di cui proprio il PD e il ministro Mussi sono i benemeriti ideatori): dopo aver tagliato drasticamente settori cruciali della ricerca pubblica – i piani di ricerca nazionale e i dottorati di ricerca –, si redistribuiscono i residui secondo precisi interessi, che poco hanno a che fare con la qualità della didattica e ancor meno con il diritto allo studio, ormai svuotato d’ogni senso.

Carrozza, con buon seguito di replicanti, alimenta il mito ossessivo delle “tecniche di valutazione”, sottraendo al dibattito pubblico una visione di sistema condivisa, che rifiuti il concetto di premialità e lo sostituisca con l’impegno a uniformare ed estendere qualità e diritto allo studio su tutto il territorio e a porre un argine alla minaccia dell’esclusione. Sul nefasto interessamento del Partito Democratico per l’università molto altro si potrebbe dire: a intervalli regolari ma frequenti, il partito si è distinto per la proposta con cui il senatore Ichino (passato per breve periodo a Scelta Civica e poi nuovamente accolto dal PD come figliol prodigo, insieme all’altra figliola prodiga Giannini, che assunse la titolarità del MIUR alla vigilia della sua candidatura come capolista alle ultime elezioni europee, testimoniando, nei fatti, il suo reale e fattivo interesse per i problemi dell’istruzione e della ricerca in Italia) ha indicato, insieme a un ampio seguito di sostenitori, la strada del meccanismo del prestito d’onore e della liberalizzazione delle rette universitarie, nonché dell’abolizione del valore legale del titolo di studio.

Resta il fatto che, al momento, dato l’operato sulla scuola, nel merito e nel metodo, fanno rabbrividire i proclami renziani sulla prossima, buona università. Da qualche cenno del ‘novissimo’ premier e della sbiadita ministra Giannini, si preannuncia l’accentuazione della logica premiale e competitiva tra gli atenei, l’incentivazione dei finanziamenti privati, l’introduzione di premi e sanzioni basati sui risultati della gestione, l’ulteriore burocratizzazione della ricerca. Insieme alle consuete parole d’ordine del ‘merito’ e dell’‘eccellenza’, qualunque cosa questi termini significhino. Senza neppure il sospetto che scuole e università debbano essere il luogo di costruzione di un sapere diffuso e di una cittadinanza critica, non una palestra per eccellenti.

È del tutto evidente che a guidare le scelte di questa classe politica e del Partito Democratico è qualcosa che non ci rappresenta. “Basta Berlinguer”: una metonimia, un’antonomasia, un’iperbole? Di sicuro è lo slogan che deve riecheggiare nelle menti e nelle voci di chi crede ancora nel valore della scuola e dell’università come strumenti di cultura, di emancipazione, di eguaglianza, di cittadinanza e di democrazia. “Basta Berlinguer”, prima che sia veramente e drammaticamente troppo tardi.

Note:

[1] A. Sani, L’autonomia scolastica soffocata nella culla, La città futura, 30 maggio 2015

* da www.lacittafutura.it

Hai letto tutto? Per i commenti rimando al link originale : http://http://temi.repubblica.it/micromega-online/basta-berlinguer-la-disastrosa-politica-del-pd-su-scuola-e-universita/

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La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi

23 Giugno 2015 , Scritto da CARANAS

La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi

Dopo il trentennio 1945-1975, i “Trenta gloriosi”, la forte ondata anti-keynesiana ha generato una polarizzazione dei redditi tanto che l’ultimo rapporto della Oxfam attesta come 85 super paperoni possiedano l’equivalente di metà della popolazione mondiale. La redistribuzione delle ricchezze appare la battaglia cardine e passa anche per nuove politiche fiscali mirate a “colpire” grandi capitali e patrimoni.

di Marta Fana e Giacomo Russo Spena

Come non detto, si sono sbagliati. Crollano, d’un tratto, teorie e tabù. Anni di politiche economiche rivelatesi un fallimento. Persino il Fondo Monetario Internazionale[1] e l’Ocse[2] sono costretti alla confessione: le disuguaglianze economiche e sociali danneggiano la crescita mentre la liberalizzazione del mercato del lavoro ha contribuito a farle aumentare già prima dello scoppio della crisi.

Dopo il trentennio 1945-1975, i “Trenta gloriosi”, la forte ondata anti-keynesiana ha portato a misure incentrate su privatizzazioni, deregulation del mercato finanziario, taglio della spesa sociale, aumento della tassazione sul lavoro – piuttosto che di quella sui profitti e sul reddito da capitale – liberalizzazione del mercato del lavoro, il tutto riducendo la progressività delle aliquote e frenando le politiche distributive e redistributive.

Il rapporto di ricerca Working for The Few della Oxfam[3] evidenzia come dalla fine del 1970 la tassazione per i più ricchi sia diminuita in 29 Paesi sui 30 per i quali erano disponibili dati. Ovvero: i ricchi non solo guadagnano di più, ma pagano meno tasse.

La polarizzazione dei redditi e delle ricchezze diventa una costante in tutti gli Stati del G7 e non solo. Dagli anni Ottanta l’aumento delle disparità di reddito è particolarmente marcato nel Regno Unito, Usa e Canada. In Italia sale nei primi anni Novanta per stanziarsi, da subito, ad un livello elevato. Per la prima volta, si evidenzia un aumento del divario tra ricchi e poveri anche in Paesi tradizionalmente caratterizzati da bassa disuguaglianza come la Germania.

Eppure, secondo gli economisti ortodossi era un bene per la crescita, la diseguaglianza veniva vista come una risorsa per far funzionare meglio l’economia, per incentivare i singoli alla competizione. Un danno collaterale da valorizzare e che si sarebbe “riassorbito” automaticamente, secondo l’ormai smentita trickle down theory. Al limite, il problema era rappresentato dalla povertà, cosa – secondo loro – ben diversa dal discorso della diseguaglianza.

Il padre spirituale di tale pensiero era Simon Kuznets che nel 1955 con un grafico esplicativo descrisse la relazione tra disuguaglianza e prosperità come una U rovesciata, la cosiddetta Curva di Kuznets. Una teoria considerata infallibile, secondo cui la crescita avrebbe in un primo momento aumentato le disuguaglianze ma nel medio e lungo termine le avrebbe ridotte, in quanto, si diceva, la crescita avrebbe beneficiato tutti. Peccato che per l’Economist si è “interrotta almeno nelle economie avanzate”. Oggi la U rovesciata è diventata una N inclinata, con l’ultima gamba minacciosamente puntata verso l’alto a ricordarci che la crescita non è uguale per tutti.

Già prima della crisi del 2008, infatti, la disuguaglianza aumenta nei Paesi dell’OCSE[4]aiutata egregiamente dalla liberalizzazione del mercato del lavoro. Cade, per l’ennesima volta, un caposaldo della teoria ortodossa. Se finora avevamo potuto rigettare l’idea secondo cui meno diritti e stabilità del lavoro avrebbero portato a più occupazione, oggi i fatti confermano che la precarietà lavorativa è un fattore discriminante che induce maggiore disuguaglianza.

Dal 2008 in poi, con l’esplosione della crisi globale il quadro è drammaticamente peggiorato. La crisi si è mostrata un’occasione per inasprire la lotta di classe, stavolta dall’alto contro il basso della piramide secondo la fortunata espressione coniata dal sociologo Luciano Gallino.

L’Europa ha reagito al crollo economico e finanziario con dosi da cavallo di austerità che hanno aumentato la diseguaglianza, depresso l’economia e peggiorato sensibilmente l’assetto delle finanze pubbliche in un circolo vizioso che non sembra aver fine.

Nel concreto, le cosiddette riforme strutturali hanno precarizzato ulteriormente il lavoro e le politiche di consolidamento fiscale – tra aumento della tassazione e riduzione della spesa sociale – si sono abbattute negativamente sulla popolazione che più ha sofferto della liberalizzazione del mercato del lavoro (giovani, donne e migranti) e sulla classe media impiegatizia – che ha subito il blocco delle retribuzioni.

L’Italia, insieme ai Paesi dell’Europa mediterranea, è stata tra le più colpite dal consolidamento fiscale, ma a differenza di molti altri (tranne la Grecia) non era, e continua a non esser dotata, di un sistema di welfare moderno che sostenga il reddito dei lavoratori tipici e della folta schiera di precari che da metà anni ’90 caratterizzano il mercato del lavoro. Secondo quanto riporta l’Ocse[5], in Italia il sistema di welfare, tassazione più trasferimenti, non soltanto non è in grado di ridurre la povertà generata dalla precarietà, ma addirittura la fa aumentare.

La crisi economica diventa anche civile, morale e politica. E’ necessario un ripensamento profondo del nostro patto di convivenza, forti dell’esperienza che la storia ci restituisce. L’eguaglianza, il faro. Un nuovo paradigma da seguire. I numeri ce lo confermano.

Sempre in base ai dati di Oxfam, 85 super ricchi possiedono l’equivalente di metà della popolazione mondiale e l’1% detiene circa la metà della ricchezza planetaria. Altri dati, per far capire le dimensioni del fenomeno: il reddito dell’1% dei più ricchi ammonta a 110.000 miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo, ed ha aumentato la propria quota di reddito in 24 su 26 dei Paesi con dati analizzabili tra il 1980 e il 2012. L’Italia non fa eccezione, il 10% più ricco detiene il 46% della ricchezza privata nazionale.

Come scrive Marco Revelli in La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi (Laterza editore) “se abbiamo a cuore la vita delle giraffe resta valido il monito di Keynes a non trascurare le sofferenze di quelle dal collo più corto, che sono affamate, né le dolci foglie che cadono a terra e che vengono calpestate nella lotta, né la supernutrizione delle giraffe dal collo lungo, né il cattivo aspetto di ansietà e voracità combattiva che copre i miti visi del gregge”. Le giraffe dai colli lunghissimi sarebbero rappresentate dagli uomini di banca e dagli speculatori finanziari, dai manager di grandi imprese e da quegli imprenditori che preferiscono accumulare profitti e portarli all’estero piuttosto che reinvestirli in attività produttive e contribuire realmente alla creazione della ricchezza nazionale.

La Spagna è il Paese europeo nel quale maggiormente si è ampliata la forbice tra redditi alti e medio bassi con il ceto medio totalmente polverizzato e coinvolto, durante l’esplosione della bolla immobiliare, nel dramma della requisizione delle case per il mancato pagamento della rata mensile.

Il repentino successo di Podemos è frutto anche di una martellante campagna sulla redistribuzione delle ricchezze. Non politiche bolsceviche, la riscoperta di Keynes in questa Europa sembra già qualcosa di rivoluzionario. Sotto la spinta degli Indignados e del pensiero del filosofo post-marxista Ernesto Laclau, il partito di Pablo Iglesias ha inaugurato un nuovo obiettivo: non più la maggioranza politica del 51%, ma il 99% contro l’1% oligarchico e antidemocratico di “super privilegiati”. La Spagna è lontana ma quanto mai vicina. Da noi, a differenza, si parla poco e male di disuguaglianza. Un modo per contrastarla passa per la proposta di un nuovo sistema fiscale e di redistribuzione di beni e servizi pubblici (tra cui immobili, aree verdi etc) in balìa delle privatizzazioni. In Italia le tasse sono un tabù e se ne discute soltanto per richiedere un abbassamento generalizzato. Capiamo meglio, numeri alla mano.

Il totale delle nostre entrate pubbliche è pari a 753 miliardi di euro, ossia il 48,1 per cento del Pil, la spesa pubblica italiana si attesta a quella degli altri Paesi europei. Come ha osservato Innocenzo Cipolletta “la pressione fiscale che sopportiamo è giusta come ammontare complessivo, ma è mal distribuita. Occorre contrastare seriamente l’evasione fiscale” [5], che come è noto si concentra maggiormente lì dove i redditi sono più elevati. Oltre, ovviamente, all’introduzione di un vero sistema a scaglioni che porterebbe ad aliquote più alte in proporzione al reddito dell’individuo.

Al contrario, la Flat tax, tassazione unica al 15 per cento per l’intera popolazione, proposta da Matteo Salvini (ma anche da Forza Italia) è innanzitutto impossibile da sostenere e, soprattutto, senza voler scomodare la già travagliata Costituzione che impone la progressività del sistema fiscale, è una tassa regressiva: le entrate per lo Stato diminuirebbero notevolmente (quasi 100 miliardi ogni anno) dato che chi oggi ha un reddito tale da pagare aliquote marginali tra il 21 e il 43%, pagherebbe molto meno, così come le aziende dato l’abbattimento dell’Ires e dell’Irap.

Gli effetti negativi si ripercuoterebbero sulle classi meno abbienti: le minori entrate fiscali si tradurrebbero in minore spesa per servizi e beni pubblici (scuola, asili, trasporto pubblico, sanità, acqua, spazi pubblici, ecc..), di cui proprio le fasce più povere della popolazione e il ceto medio impoverito beneficiano maggiormente. Inoltre, la soglia di esenzione della tassazione verrebbe ridotta a 3000 euro, imponendo a tutti coloro con un reddito compreso tra i 3000 e gli 8000, che attualmente non pagano tasse sul reddito, l’imposta al 15%. Ad esempio – scrive Daveri su lavoce.info – “un contribuente singolo con reddito di 10.000 euro che oggi paga di imposte 460 euro, pagherebbe [con la flat tax ] 1050 euro”.

Mentre da destra si chiede l’introduzione di sistemi regressivi a danno della maggioranza della popolazione, in pochi, anche a sinistra, provano a ribaltare il grande dogma – smentito più volte dall’economista Mariana Mazzucato[6] - che siano le imprese gli unici attori economici capaci di creare ricchezza. Convinzione che ha portato a una riduzione della tassazione sul reddito di impresa lasciando che la quota profitti aumentasse rispetto a quella del reddito da lavoro sul totale del reddito nazionale.

In Italia, ad esempio tra il 2006 e il 2015, il congiunto tra Ires e Irap è diminuito dal 37 al 31,4%, come riporta un rapporto di Kpmg[7]. Ma gli sperati miracoli da parte delle imprese non sono arrivati: in Italia si investe sempre meno e l’occupazione non è aumentata in modo significativo qualitativamente e quantitativamente a seguito degli sgravi e della riduzione delle tutele per i lavoratori. Se la riduzione della tassazione dei profitti è diffusa a livello globale, esiste ancora la possibilità che essa sia comunque definita su base progressiva, come in Francia, ad esempio, dove le aziende con reddito d’impresa superiore ai 760.000 euro pagano un’aliquota del 3.3% superiore alla media, mentre per le aziende sopra i 250 milioni la tassa aumenta del 10.7%.

Ristabilire maggiore equità significa non solo operare una maggiore redistribuzione, ma evitare la concentrazione delle risorse nelle mani di pochi. I “Trenta gloriosi” furono caratterizzati sia da redistribuzione che da un netto aumento della diffusione della ricchezza tra tutte le fasce della società che si accompagnava a una crescita consistente dei salari.

Lo spirito di quegli anni, così come il conflitto sociale sottostante, sembrano essere stati sconfitti dalla lotta di classe dall’alto verso il basso, così come dimostra la tendenza a ridurre le tasse sui redditi e sulla ricchezza ereditata (una tra le tante varianti della famigerata “patrimoniale”) che nulla ha a che fare con i meriti e la buona volontà dei singoli, ma dipende dalla fortuna di nascere in una famiglia agiata piuttosto che economicamente povera.

Allo stesso tempo è necessario che i piccoli risparmi siano incoraggiati piuttosto che tassati come fossero rendite finanziarie, ovvero come ha fatto il governo Renzi da ultimo aumentando le aliquote (ovviamente uguali per tutti) sui fondi pensione, che si abbattono come una patrimoniale proprio sui piccoli risparmiatori, giovani precari e famiglie piuttosto che sui grandi capitali, contro qualsiasi principio di progressività fiscale ancor prima che di equità.

La lotta alle disuguaglianze passa anche per nuove politiche fiscali mirate a “colpire” grandi capitali e patrimoni soprattutto quando non reinvestiti in attività produttive. Perché in Italia la redistribuzione delle ricchezze non resti una chimera.
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